Pubblicatio il 28 aprile 2012 | di bitquotidiano
0Monete elettroniche. A chi fa paura il bitcoin?
Ogni tanto sui principali quotidiani leggiamo che la moneta elettronica (libera dalle banche e dalle multinazionali) è una cosa terribile, usata da criminali d’ogni genere per sfuggire alla polizia. Sarà vero?
Esattamente un anno fa i quotidiani italiani hanno scoperto Bitcoin, che ormai aveva raggiunto una certa notorietà. Il tipo della scoperta si capiva dai titoli (Repubblica: “La moneta degli hacker e della Cia”). Allora un bitcoin valeva cinque dollari, dai pochi centesimi dell’anno prima.
L’economia ufficiale, contemporaneamente, cominciava a dibattersi sulla crisi del dollaro.
Un mese fa, all’improvviso, la campagna ricomincia: “L’Internet segreto delle mafie dove si paga con soldi virtuali”… Parliamo di campagna perché, come l’anno scorso, viene lanciata contemporaneamente dai principali giornali.
Questo dell’”internet mafioso” era un titolo de La Stampa, ma anche gli altri non scherzavano. Repubblica: “Sesso, droga e armi: la faccia cattiva del web” (“se Bin Laden avesse avuto Bitcoin avrebbe potuto comprare qualunque arma…”). Corriere: “Il web senza regole dove tutto è possibile” (e video di un hacker incappucciato e coi guanti che scrive al computer).
Qualcuno (ancora Corriere) scopre un “assassination market”: che però non è un mercato di killer ma un “prediction market” in cui si piazzano scommesse (come in “Profondo Blu” di Jeffrey Deaver) sulla morte di personalità famose.
Il dollaro, nel frattempo, aveva trascinato nella crisi anche l’euro, e la maggior parte delle banche, mnentre il bitcoin continuava a godere di ottima salute.
Una settimana fa, Repubblica.it apre con un “Bitcoin, la criptomoneta digitale anonima e sganciata dalle banche“, più “ragionevole”, meno urlato ma insistito “sui pagamenti virtuali di armi e droga”. Un articolo non firmato, e involontariamente eloquente dove depreca che così chiunque può “diventare una piccola banca” e slegarsi dai tradizionali processi economici come l’inflazione, le tasse, le commissioni, i vincoli delle banche”.
Le banche, già.
Ma come stanno le cose? Il punto più interessante è che nessuno di tutti questi articoli, pieni di allarmi-bitcoin su mafia, trafficanti d’armi e criminali d’ogni genere cita la caratteristica più importante (dal punto di vista “poliziesco”) del bitcoin: il bitcoin è tracciabile. Ogni singolo bitcoin, ogni transazione, porta la firma indelebile di chi l’ha fatta. Una firma elettronica, prodotta automaticamente dal software, e facilmente accessibile agli hacker e alle polizie di tutto il mondo. Altro che moneta nascosta: è come se su ogni singola banconota da un dollaro ciascuno, a ogni passaggio, dovesse mettere la propria firma, come in un passaporto. Non esattamente la moneta ideale per chi ha qualcosa da nascondere – neppure per chi da nascondere ha molto, come certe grandi banche.
Bitcoin – accusano Corriere, Repubblica e altri – è la moneta usata su Silk Road, un sito di transazioni illegali nascoste a tutti. In realtà il problema in questo caso non è Bitcoin, ma il software di anonimato usato su Silk Road.
Si tratta di è Tor (The Onion Router), originariamente sponsorizzato dal laboratorio di ricerca della marina americana e dagli avvocati per le libertà civili dell’Electronic Frontier Foundation. Utilizzato dai dissidenti in Iran e più di recente in Egitto, è anche efficace contro i tentativi di restrizione imposti ai provider (come in Francia).
L’Italia è al quarto posto al mondo nell’uso di Tor, che tecnicamente è un normale programma che si installa come tutti gli altri e la pagina di Silk Road, inaccessibile senza Tor, è visibile persino da wikipedia.
L’otto giugno Reuters riporta una lettera alla Dea (l’ente antidroga americano) di due senatori Usa (Manchin e Schumer) su Silk Road e bitcoin. La Dea risponde – distinguendo opportunamente i due soggetti – che Su Silk Road ci sono difficoltà tecniche, ma su Bitcoin non è emerso niente di rilevante.
Dal team di sviluppo di Bitcoin precisano (a firma di Jeff Garzik che Bitcoin non è anonimo come i critici di Silk Road vogliono far credere.“Tutte le transazioni – spiega – sono registrate pubblicamente e le forze dell’ordine, con metodi sofisticati, possono risalire ai singoli utenti che usano bitcoin. Appena il programma viene installato ogni utente infatti scarica l’intera catena di transazioni, dal primo giorno di attività di Bitcoin, chiamata Blockchain”.
Un semplice utilizzatore di bitcoin insomma vede solo numeri e lettere che compongono gli indirizzi da cui ricevere o inviare moneta; ma un esperto – sia esso un comune hacker o un investigatore della polizia – può recuperare informazioni incrociate dalla blockchain pubblica e ricostruire quindi ogni singolo movimento.
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